
Mi tornano in mente alcuni dipinti del pittore francese Theodore Gericault, legati al cosiddetto ciclo degli alienati del 1822 - 1823, ritratti di soggetti emarginati dei bassifondi, lontani dalla sfavillante industrializzazione della città.
Nel 1936 esce “Modern Times”, film del genio di Charlie Chaplin, dove all’avanzamento industriale dell’epoca viene anteposto in senso critico l’alienazione dell’uomo moderno, ridotto ad automa di una società meccanizzata. Il protagonista della pellicola finisce con l’ammalarsi di un grave esaurimento nervoso, per poi riprendersi e continuare la sua bizzarra avventura.
Comune dominatore tra tela e pellicola, nonostante la distanza di circa un secolo, è il concetto di alienazione, una certa umanità che perde un pezzo di sé per lasciare il posto alla macchina e al prodotto. Questo accadeva a ridosso della prima e della seconda rivoluzione industriale.
Gli anni novanta sono quelli di internet, la possibilità di condividere informazioni, di ridurre le distanze, connessioni sempre più veloci, aumentano i click, e quando i computer non bastano più arrivano gli smartphone, la possibilità di avere il mondo in una mano. La fabbrica come concetto perde la sua materialità, e diventa soggetto all’algoritmo, alla visibilità nei motori di ricerca, alla necessità di rivolgersi ad un mercato digitale mondiale. Siamo nel pieno della rivoluzione informatica.
L’idea di fabbrica è la rete stessa, una fabbrica che non produce denaro in sé, ma l’assioma che solo attraverso la rete sia oggi possibile esistere e sopravvivere. Una rete che pretende il nostro tempo, ci assorbe, e come le fabbriche degli albori produce alienazione, ma lo fa in un modo subdolo.
E’ un’alienazione dinamica, non passiva, l’uomo non subisce il prodotto o la macchina, come nel film di Chaplin, ma è egli stesso il prodotto, lo alimenta in un prolungamento della sfera emotiva, sintetizzata in un profilo social. Oggetto del mercato della “fabbrica rete” è proprio l’emotività degli internauti che involontariamente arricchiscono di informazioni le banche dati di aziende, disposte a pagare milioni per conoscere le nostre preferenze, fino ad arrivare a crearne di predefinite. Il mercato che si autodetermina, impone le proprie tendenze, alimentato dall’utopia per cui chi sceglie crede di farlo in completa autonomia.
E’un’alienazione inconsapevole, che con i social sfocia nella vanità assoluta, nell’esibizionismo più becero, nella dittatura democratica dell’immagine e della parola, consentire a tutti di dire qualcosa su tutto, spesso con cattiveria e cinismo, protetti da uno schermo che sostituisce gli sguardi, e in questo emerge una differenza con quanto accadeva nei primi del novecento. Il fenomeno dell’alienazione, successivo alle due rivoluzioni industriali, era espressione di un’esigenza, custodire quell’umanità che si rifiutava di perdersi dentro la meccanizzazione della società moderna. Oggi assistiamo ad una profonda solitudine “social”, che da un lato alimenta la fabbrica - rete, e dall’altro non ha la pretesa di proteggere alcun valore di umanità, piuttosto ne esaspera i contorni, mettendo in risalto sui display il peggio di sé.
Foto di Antonello De Rosa